Cinquant’anni dopo gli scioperi del 1969 La casa: una “nuova questione abitativa”

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Roma, 19 novembre 2019

“La casa: una nuova questione abitativa”

Presiede e coordina Ivana Veronese, segretaria confederale Uil, introduce Giulio Romani segretario confederale Cisl. Seguono: Giovanni Carlo Cancelleri, viceministro delle Infrastrutture e dei Trasporti; Alessandro Almadori, Federcasa; Daniele Barbieri, sindacato inquilini; Giorgio Benvenuto, Fondazione Bruno Buozzi; Vezio De Lucia, urbanista; Simone Ombuen, Istituto Nazionale di Urbanistica; rappresentante Conferenza delle Regioni e delle Provincie autonome; videomessaggio di Antonio De Caro, presidente Anci. Conclude Gianna Fracassi, vicesegretaria generale Cgil.

 

Appunti dalla relazione introduttiva di Vezio De Lucia.

Confesso che sono emozionato. Torno dopo trent’anni nei luoghi dove ho lavorato e dove ho vissuto, dalla parte del governo, le vicende di cui oggi parliamo. Ma nel 1990, da direttore generale dell’urbanistica, fui rimosso dall’incarico dal famigerato ministro Prandini.

All’origine del grande sciopero del 19 novembre 1969 c’è l’annuncio della Fiat nel marzo del 1969 di voler assumere 15.000 nuovi addetti da reclutare nel Mezzogiorno, determinando tensioni e contestazioni sul pesante aggravamento delle già pessime, schifose, condizioni abitative nell’area torinese e l’accentuazione della crisi nelle regioni meridionali.

La Fiat propose di costruire baracche nei comuni della cintura e in fabbriche dismesse nella città. I previsti insediamenti erano tagliati fuori dai centri abitati quindi privi di ogni servizio collettivo (negozi, bar, uffici pubblici, ecc.) e senza servizi di trasporti pubblici. Diego Novelli ricorda che le caratteristiche delle baracche erano: lunghezza 55 metri, larghezza 10, altezza 2,70. Ogni box (m.4,40 x 4,40) conteneva quattro posti letto. Lo spazio utile, tolti i letti e gli armadietti e un eventuale tavolino da un metro quadro, risultava essere di 6,6 metri quadrati per quattro persone, vale a dire 1,65 mq per persona.

Alla proposta della Fiat, Torino reagì con lo sciopero generale Cgil, Cisl, Uil di tutte le categorie del 3 luglio del 1969. Si trattò di un avvenimento eccezionale, per la prima volta gli operai scesero in lotta per motivi che non riguardavano la vita interna della fabbrica, né i problemi del salario o dell’orario di lavoro. Come si disse allora, il sindacato uscì dalla fabbrica. Né si poteva parlare di sciopero politico come era successo contro la legge truffa, nel 1953, e contro il governo Tambroni eletto con i voti fascisti, nel 1960.

Chi non capì la portata e il significato di quello storico sciopero, che aveva visto nella provincia di Torino ben 600.000 lavoratori incrociare le braccia, fu Gianni Agnelli, presidente della Fiat, che si domandò sorpreso e indignato il perché di quella imponente manifestazione e soprattutto chiedeva ai sindacati ragione di quella agitazione che colpiva la produzione, quindi direttamente la Fiat, del tutto estranea, secondo lui, alla cause che erano alle origini della protesta: “cosa c’entra la Fiat con la mancanza di case per i lavoratori?”

La tensione che attraversava la classe operaia di Torino fu colta anche dalla Gazzetta del Popolo che, per la prima volta, dopo decenni di sudditanza alla Fiat, esplicitamente chiamò in causa le responsabilità dell’azienda. Il 16 settembre 1969 il direttore Giorgio Vecchiato scrisse che il sindacato alla Fiat “è debole principalmente perché, in venti anni, è stato svuotato, quando non comprato. […] La città scoppia. Si moltiplicano i posti di lavoro, ma mancano le case, i servizi, i trasporti, le fognature, le scuole, gli ospedali, le biblioteche. I pendolari perdono ogni giorno ore e ore, che per loro sono ore di lavoro. Nei cameroni degli speculatori si dorme a 15 mila lire per letto, a rotazione; la spesa può toccare le 30 mila lire. Un appartamento decente porta via metà dello stipendio. I ghetti, nel decrepito centro sabaudo o nella cintura, danno alimento alla degradazione ed alla promiscuità, e quindi alla protesta. L’immigrato non si appaga più delle centomila mensili, avendo in cambio un pagliericcio infetto od una panca alla stazione”.

Nell’estate del 1969 scioperi e manifestazioni si moltiplicarono e si estesero da Torino a tutta l’Italia efu proprio la vertenza per la casa e per una nuova politica urbanistica che infiammò l’autunno caldodel 1969.

Cgil, Cisl e Uil proclamarono per il 19 novembre uno sciopero generale di tutte le categorie. L’Italia fu bloccata, mai prima si era vista una manifestazione così possente e partecipata.

La risposta furono le bombe del 12 dicembre a Milano e a Roma. Nel capoluogo lombardo un’esplosione nella Banca nazionale dell’agricoltura, a piazza Fontana, provocò la morte di 17 persone e 88 feriti. Cominciò così la strategia della tensione caratterizzata da attentati e stragi che insanguinarono l’Italia per tre lustri. Le principali tappe di questa lunga tragedia furono:

  • 22 luglio 1970 stazione di Gioia Tauro, 6 morti e 66 feriti
  • 17 maggio 1973 Questura di Milano, 4 morti e 46 feriti
  • 28 maggio 1974 piazza della Loggia a Brescia, 8 morti e 102 feriti
  • 4 agosto 1974 Italicus a San Benedetto Val di Sambro, 12 morti e 105 feriti
  • 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna, 85 morti e oltre 200 feriti
  • 23 dicembre 1984, treno 904, ancora a San Benedetto Val di Sambro, 17 morti e 260 feriti.

Poche e incerte le verità giudiziarie, ma è fuori discussione l’impronta della destra eversiva che tentò di contrastare l’autunno caldo e le conquiste del movimento operaio e sindacale.

Attenti osservatori (primo Antonio Cederna) videro nella strage di piazza Fontana e nella strategia della tensione il tentativo di ostacolare, innanzi tutto, ogni ipotesi di riforma urbanistica edell’intervento pubblico in edilizia. Sembra che si ripeta, ma stavolta in forma cruenta, il copione dell’estate del 1964, quando Nenni avvertì un tintinnar di sciabole al tempo della formazione del secondo governo Moro. Si trattava del tentato un colpo di Stato (il Piano Solo) del generale De Lorenzo svelato da l’Espresso qualche anno dopo. Finalmente il libro di Mimmo Franzinelli, Il piano Solo, del 2010, ha confermato che il colpo di Stato era stato organizzato per impedire la riforma urbanistica e non per ragioni politiche (la paura dei comunisti al governo). Il libro di Franzinelli documenta anche le responsabilità, a partire dal mandante, il presidente della Repubblica Antonio Segni.

Dopo lo sciopero del 19 novembre 1969, durò due anni il braccio di ferro fra chi voleva limitarsi ariverniciare decrepite istituzioni e i sostenitori del radicale rinnovamento dell’intervento pubblico inedilizia (il sindacato, il Pci, una parte dei socialisti e dei democristiani). Infine, nell’ottobre del 1971 fu approvata la nuova legge per la casa (n. 865), il risultato forse più incisivo della politica di riforme del primo centro sinistra che prevede, tra l’altro:

  • la riorganizzazione degli strumenti e del finanziamento dell’intervento pubblico, con l’eliminazione di decine di enti inutili
  • l’introduzione di nuove norme per l’esproprio favorevoli ai comuni
  • l’abrogazione dell’articolo 16 della legge 167 che consentiva la realizzazione di alloggi anche da parte dei proprietari dei suoli destinati a Peep.

Il risultato ottenuto fu importante. In quegli anni sembrava che la lotta alla rendita avesse raggiunto risultati rilevanti, basta ricordare l’intervista di Gianni Agnelli a l’Espresso del novembre 1972:

“Il mio convincimento è che oggi in Italia l’area della rendita si sia estesa in modo patologico. E poiché il salario non è comprimibile in una società democratica, quello che ne fa tutte le spese è il profitto di impresa, questo è il male del quale soffriamo e contro il quale dobbiamo assolutamente reagire. Oggi pertanto è necessaria una svolta netta. Non abbiamo che due sole prospettive: o uno scontro frontale per abbassare i salari o una serie di iniziative coraggiose e di rottura per eliminare i fenomeni più intollerabili di spreco e di inefficienza”.

Due piccole annotazioni per concludere sulla stagione degli scioperi e delle riforme: 1.      La primariguarda la differenza fra i risultati raggiunti negli anni 1969-1971 e il fallimento della propostaSullo del 1963. La differenza sta senza dubbio nella partecipazione del movimento operaio esindacale, che all’inizio del centro sinistra era stato assente, lasciando soli gli esponenti politiciriformatori.

  1. La seconda riflessione riguarda il fatto che, come vedremo, all’impegno risoluto e vincenteper ottenere leggi di riforma non corrispose, negli anni successivi, analoga determinazione pertradurre le nuove norme in opere e fatti concreti. Profeticamente, Riccardo Lombardi, nellaprefazione a un libro di Michele Achilli del 1972 sulle vertenze per la casa, aveva ricordato che ilpresidente Franklin Delano Roosevelt volle scritto nella legge riguardante la Tennessee ValleyAuthority che ad attuare quella legge dovesse essere chiamato solo “chi era persuaso della suagiustezza e utilità”.

Dopo la legge 865, continuò l’indimenticabile “processo di riforma” degli anni Settanta con:

  • la riforma urbanistica della legge Bucalossi
  • la legge per l’equo canone
  • la legge relativa al cosiddetto piano decennale per la casa.

Ma la stagione delle riforme durò pochissimo. All’inizio degli anni Ottanta, la Corte costituzionalecancellò le riforme del decennio precedente. Cominciò così la controriforma degli anni Ottanta, che non è mai finita.

Il liberismo di Margaret Thatcher e di Ronald Reagan attraversa la manica e l’Atlantico e travolge in particolare l’Italia, anche la sinistra italiana. Secondo Giorgio Ruffolo, con gli anni Ottanta “finisce l’età dell’oro del compromesso socialdemocratico, quando la crescita economica si accompagnava alla riduzione delle disuguaglianze”.

In allegato il “Manifesto Unitario” del 1969, il Documento con le “Indicazioni dei Sindacati per Casa consegnato al governo nel 1969 e la Piattaforma unitaria presentata il 19 novembre al MIT a 50 anni di distanza.

 

Scarica qui la piattaforma unitaria Cgil, Cisl e Uil.

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