Le città mancate, Storia dell’abitare in Italia dal dopoguerra al Pnrr (di Paolo Rosa)

L’Italia è una Repubblica fondata sul mattone. Nel 1949 il Piano casa Fanfani individuava nella casa di proprietà la soluzione principale per la rinascita del Paese. Molti italiani, sostenuti da benefici statali, investivano così nell’edilizia residenziale comprimendo i consumi in altri settori e allontanando definitivamente alcune opportunità occupazionali, con pesanti ricadute sull’intero sistema Paese.

Il libro Le città mancate. Storia dell’abitare in Italia dal dopoguerra al Pnrr ripercorre, a partire dal secondo dopoguerra fino alle ultime iniziative in corso, ottanta anni di programmi, azioni, misure, pratiche e strumenti adottati  in materia di politiche abitative in Italia ed indica, al contempo, possibili soluzioni per nuove politiche urbane e territoriali per superare i divari di equipaggiamento infrastrutturale e di servizi che caratterizzano le diverse  aree geografiche.

Ancora oggi in molte aree, soprattutto metropolitane, cercare casa è una missione impossibile. Nelle graduatorie pubbliche per ottenere una casa pubblica ci sono oltre 500 mila famiglie che ne hanno diritto e le decine di migliaia di alloggi costruiti in questi ultimi tre decenni dal mercato privato non erano dunque destinati alle famiglie più povere ma servivano, spesso, ad alimentare operazioni edilizie e finanziarie speculative.

Dopo crisi politiche, economiche ed energetiche e dopo una pandemia che riportato al cento dell’agenda mediatica l’urgenza del tema abitativo, la casa, estesa al campo del recupero e alla rigenerazione urbana di ambiti degradati, resta  uno dei temi prioritari da affrontare per conseguire uno sviluppo equilibrato e sostenibile unitamente ad una irrinunciabile coesione sociale.

Il volume riavvolge le vicende che hanno attraversato la cosiddetta “stagione delle riforme” sul finire degli anni Settanta che hanno condotto ad importanti riforme del comparto urbanistico ed edilizio (nel 1977, la legge sul regime dei suoli, l’equo canone  e il Piano decennale per l’edilizia residenziale pubblica) rese possibili dall’intesa Dc-Pci (compromesso storico).

A questi importanti strumenti regolatori e di programmazione seguì, già all’inizio degli anni Ottanta, una ‘controriforma’ che in breve tempo portò alla caduta della riforma urbanistica Bucalossi, le norme sugli espropri e quelli per il contenimento dei canoni di locazione, compresa la pressoché scomparsa dell’edilizia residenziale pubblica.

Successivamente, tra il primo e il secondo condono edilizio (1985-1994) si materializzano strumenti procedurali (Accordi di programma) che consentono di derogare alle previsioni dei piani regolatori essendo basati sul partenariato pubblico-privato. Una ulteriore sconfitta per la pianificazione è il Piano casa del 2009 (governo Berlusconi) fondato esclusivamente  su incentivi volumetrici  e cambi di destinazione d’uso.

In questo percorso particolare rilievo assume la questione delle risorse economiche senza le quali è impossibile risolvere il problema casa. Diversamente da quanto ragionevolmente immaginabile, il settore dell’edilizia residenziale pubblica, a partire dal Piano Ina-Casa del 1949, si è autoalimentato fino a tutto il 1998 e non ha intaccato, se non per quote residuali destinate ad interventi straordinari, il bilancio generale dello Stato.

Infatti, le risorse destinate alla realizzazione di case pubbliche provengono, secondo quanto previsto dalla legge 143 del 1949 promossa dal ministro del lavoro Fanfani, dai contributi obbligatori versati dai lavoratori dipendenti pubblici e in quota parte dei datori di lavoro, (rispettivamente in misura dello 0,35 e dello 0,70 per cento delle retribuzioni mensili) e dallo Stato per il 4,3 per cento delle somme versate oltre ad  una minima percentuale del costo di costruzione degli alloggi  (il 3,2 per cento).

Successivamente il sostegno all’intervento pubblico portò all’approvazione di un altro provvedimento fondamentale sotto il profilo economico e operativo. Con la chiusura dell’esperienza Ina-casa, nel 1963 viene istituita nel 1963 la Gescal (Gestione delle case per i lavoratori)  finanziata con un prelievo obbligatorio a carico di ogni lavoratore dipendente. Il fondo alimenterà il comparto dell’erp con ingenti risorse (circa 3000 miliardi di vecchie lire/anno) per tutti gli anni Novanta.

 Sul finire del primo decennio degli anni Duemila si registra un grande entusiasmo verso modalità alternative all’intervento statale nel comparto abitativo, ormai di fatto defilato e che ne segna i limiti in un contesto caratterizzato da iniziative pubbliche sporadiche e parziali di recupero del patrimonio residenziale pubblico.

Con il social housing meglio ridefinibile, per la connotazione assunta in Italia, in “edilizia residenziale privata sociale” si amplia la platea dei destinatari fino a ricomprendere fasce intermedie di cittadini (la cosiddetta “fascia grigia”) prive dei requisiti di accesso al tradizionale sistema dell’edilizia pubblica ma che, al contempo, trovano il libero mercato inaccessibile per dare soluzione alle proprie istanze abitative.

In sostanza il volume di Paolo Rosa, nell’analizzare i nodi che hanno impedito di affrontare efficacemente un problema che molti paesi europei hanno risolto da tempo, si articola su tre piani di lettura:

  1. In primo luogo ci si sofferma sulla storia dell’intervento pubblico nel settore della casa nel primo periodo della ricostruzione post bellica.
  2. Il secondo aspetto riguarda la contraddittoria politica programmatoria da parte del legislatore e dei vari Ministeri poste in essere negli ultimi trenta anni.
  3. Infine si ragiona su come si possa costruire una nuova prospettiva di intervento in grado di risolvere il problema abitativo in Italia.

Nelle pagine di riflessione storica si possono rileggere la storia della questione abitativa in Italia dal secondo dopoguerra attraverso due  periodizzazioni. Nel 1949, sotto la denominazione del “Piano Fanfani” vengono approvati provvedimenti organici e finanziamenti adeguati per avviare la fase della ricostruzione post bellica. La casa pubblica è un elemento costitutivo del piano mentre l’iniziativa privata e cooperativa è sostenuta da altri provvedimenti legislativi.

La seconda fase arriva fino agli anni Ottanta e costituisce il periodo più fecondo dell’intervento pubblico nel settore abitativo grazie alla costruzione dei nuovi quartieri di edilizia economica e popolare sulla base della legge 167/62 e sul successivo allargamento concettuale dell’intervento pubblico su tutta la città.

Con il varo del Piano decennale sull’edilizia  si apre infatti un periodo di sperimentazioni del recupero del patrimonio abitativo storico e di interventi di costruzione di residenze pubbliche all’interno dei centri storici. E’ la città nel suo complesso a rappresentare il terreno di realizzazione degli alloggi pubblici che ancora mancano e la cultura urbanistica si cimenta in questa fase anche con la redazione di numerosi piani urbanistici generali che tentano di inserire in modo organico l’edilizia sovvenzionata nello sviluppo urbano.

All’interno delle vicende analizzate, un particolare significato assume la sostituzione delle regole urbanistiche con la cultura del “progetto” e dei “piani casa”.

L’urbanistica contrattata ha dunque cancellato l’urbanistica pubblica. Mancanza di regole e casualità sono gli ingredienti della nuova fase quando è noto che le città per guardare al futuro avrebbero bisogno di ragionamenti di lungo respiro, attenti a fondate prospettive di sviluppo solide.

Tutta la vicenda resta comunque connessa al disimpegno dello Stato a legiferare in materia di pianificazione del territorio. L’assenza di principi fondamentali non ha potuto certamente orientare la potestà legislativa delle regioni favorendo, per contro, l’accordo politico assunto il primo aprile 2009 in sede di Conferenza Stato-regioni con il quale si è dato il via al “piano casa 2” che ha di fatto scardinato una serie di principi della materia: ad esempio, quello per cui i principi fondamentali delle materie di legislazione concorrente vanno individuati con leggi del Parlamento (e non da accordi politici) e quello della pianificazione comunale.

Ulteriori sono i meccanismi con cui verrà demolito l’intervento pubblico. Il primo ha riguardato la frammentazione delle competenze in materia di politiche urbane abitative con la conseguente disarticolazione dei provvedimenti legislativi che hanno preso i nomi più altisonanti – utilizzando gli aggettivi alla moda della sostenibilità e del recupero –  spesso senza raggiungere concreti risultati.

A partire dal 2012 sono stati  21 i piani di intervento, tra nazionali ed europei, con risorse per un totale di 5, 2 miliardi che non sono decollati o che hanno viaggiato a rilento. La disponibilità finanziaria è stata utilizzata solo per il 20 per cento. Tentativi che risalgono agli anni Ottanta e Novanta   con le sigle più disparate: Pru, Prusst, Articoli 18, Piano città, i due bandi per le periferie e da ultimo, il Piano qualità per l’abitare. È la fotografia di una rigenerazione urbana frammentata, di una priorità che non ha trovato strategie stabili e condivise e dell’assenza di una delega specifica per le aree urbane nel Governo.

La seconda serie di provvedimenti di indebolimento dell’intervento pubblico ha riguardato la finanziarizzazione del mercato delle abitazioni pubbliche in ossequio alle caratteristiche dell’economia dominante sia con l’introduzione dei Siiq (società di investimento immobiliare quotate) che con altri specifici provvedimenti concernenti i fondi di investimento nazionali e regionali.

La terza modalità sostitutiva dell’azione pubblica nel comparto abitativo è la cancellazione del concetto di casa popolare per sostituirla con l’ambiguo termine di  housing sociale. In buona sostanza, con il social housing  è stato abbandonato l’intervento dello Stato a favore delle famiglie più povere per sostituirlo con interventi di natura privatistica che non riusciti però a ricomprendere le componenti più povere della domanda.

Il libro indica anche la strada per riprendere il cammino della realizzazione di politiche abitative efficaci. Viene finalmente demolita la falsa retorica contro “la burocrazia”. Ritardi e mancata efficienza non sono da attribuire alle strutture tecniche e amministrative ma alla irrazionalità dei sistemi normativi e di competenze che rallentano le decisioni.

Il più urgente obiettivo da raggiungere è comunque rimettere ordine al sistema decisionale che governa il settore della casa. Per una lunga stagione l’urbanistica ha prestato scarsa attenzione alla qualità degli spazi urbani, al consumo di suolo e alla salvaguardia ambientale. Le politiche di deroghe al piano, avviate negli anni ’80 e tuttora in corso, hanno favorito interessi economici emergenti tradotti in estemporanei progetti urbanistici. Per questo la città consolidata ha bisogno di rigenerarsi attraverso operazioni di densificazione senza consumare nuovo terreno, in coerenza con il paradigma della sostenibilità espressa nelle dimensioni sociale, economica ed ambientale.

Soprattutto nelle periferie, luoghi in cui vive la maggior parte della popolazione urbana, accanto alla valorizzazione dei luoghi indifferenziati, vanno strutturate strategie che rendano possibile l’inserimento di funzioni pregiate di livello urbano che ne permettano il riscatto culturale, sociale e occupazionale. In definitiva le città, da intendere come infrastrutture sociali e beni comuni, necessitano di nuove condizioni per ritrovare equilibri più sostenibili.

Occorre  dunque rimettere al primo posto l’intervento pubblico in materia edilizia, costruendo un piano pluriennale  per l’edilizia pubblica che era uno dei pilastri dell’intervento pubblico negli anni Ottanta. La riqualificazione urbana può svolgere anche un forte ruolo ambientale. Trasformare il patrimonio esistente con utilizzo di materiali compatibili e fonti energetiche rinnovali significa evitare consumo di suolo non edificato secondo i principi sostenibilità ambientale e di economia circolare dell’Agenda 2030.

L’emergenza epidemiologica ha  reso più evidenti alcune delle fragilità che caratterizzano le aree urbane, e ha portato ad immaginare nuove forme di organizzazione delle città. Con ogni probabilità le aree urbane non perderanno la loro attrattività ma vanno rese più inclusive, resilienti e ambientalmente sostenibili. I centri urbani vanno “densificati” e le aree dismesse riutilizzando e riconvertendo, con destinazioni d’uso compatibili, il patrimonio edilizio pubblico e privato non più utilizzato