Roma, la casa e l’emergenza abitativa che non c’è…

Il dibattito che ruota intorno al settore casa e al tema dell’emergenza abitativa è spesso intriso di fatalismo. I numeri e le forze in campo fanno sì che tale problema sembri insormontabile.
Eppure dal 1971, da quando Insolera scrisse la terza edizione di “Roma moderna” in cui evidenziava i problemi abitativi dovuti alle migrazioni e alla forte conurbazione post-bellica, ad oggi la popolazione di Roma è rimasta sostanzialmente stabile, circa 2 milioni e 800 mila abitanti.
In quegli anni 70 mila persone vivevano nei baraccamenti della periferia romana[1]. Per far fronte alla situazione si diede via ad imponenti programmi di costruzione di cui una quota parte significativa furono i PEEP, i piani per l’edilizia economica e popolare. A Roma nel solo periodo fra in 1972- 1980 la produzione edilizia legale è stata di circa 83 mila abitazioni, di circa 65 mila abitazioni abusive e di 17 mila abitazioni non rilevate statisticamente ma con contratti di fornitura[2].
Oggi a 50 anni di distanza nonostante si sia costruito molto, e la popolazione sia rimasta stabile, ancora si parla di emergenza abitativa. Le stime attuali vertono su una prima necessità di 15 mila famiglie[3], di cui non più di 5 mila in condizioni simile a quelli dei baraccamenti, di certo una massa critica che non dovrebbe essere in grado di mettere in crisi una Città Capitale come Roma.
La composizione dei nuclei rispetto a quegli anni è notevolmente cambiata così come le esigenze spaziali dei singoli abitanti. Tuttavia la maggiore necessità spaziale pro capite non può tenere conto dei dati sul patrimonio edilizio romano. Le stime ci parlano di un sottoutilizzo del patrimonio privato del 50%[4] e addirittura del 70% del patrimonio pubblico. Solo a Corviale, per fare un esempio, vi sono 300 alloggi da 118 metri quadri in cui ormai abita un anziano solo[5]. Un fenomeno distorsivo che perlomeno nel pubblico deve essere affrontato.
L’attuale dibattito intorno al tema è tuttavia ancora dominato da approcci ideologici e da posizioni precostituite che si basano su alcuni assiomi:
Il primo è quello della carenza degli alloggi o di luoghi che si potrebbero dedicare all’accoglienza. Nella città di Roma vi sono circa 50 mila alloggi privati sfitti, molti spazi di risulta, attività dismesse, luoghi abbandonati e, come abbiamo visto, un tasso di sottoutilizzo del patrimonio pubblico prossimo al 70%. Le case popolari, Ater e Comune, a disposizione dei romani sono 77 mila, come quelle di uno dei quindici municipi romani, in cui abita una popolazione di circa 200 mila persone, come due medi capoluoghi di provincia, ad esempio Trento e Modena, una città nella città. Le case popolari sono poche se paragonate all’intero stock abitativo della capitale, 1 milione e 250 mila alloggi, ma se le mettiamo in relazione con il solo mercato degli affitti, 251 mila alloggi, allora scopriamo che un alloggio su tre in affitto a Roma è una casa popolare[6]. Pertanto il pubblico dovrebbe godere di una posizione egemone in questo mercato, posizione che mai è riuscito ad esercitare.
In questo patrimonio vi sono 15 mila nuclei, fra abusivi e decaduti, che non vi dovrebbero risiedere e si stima che circa mille alloggi vengano occupati ogni anno[7]. In questo scenario una riqualificazione e razionalizzazione degli spazi ma anche una nuova visione gestionale sembra essere la risposta più valida per diversi motivi: il primo per i più rapidi tempi di realizzazione rispetto a nuovi programmi costruttivi, il secondo perché questa modalità operativa evita consumo di suolo, il terzo perché può essere l’opportunità per una efficace rigenerazione urbana dei quartieri e dei loro tessuti sociali.
Il secondo assioma è che l’attuale stato di immobilismo dipenda dalla scarsità delle risorse, la crisi economica che si protrae dal 2008 ha profondamente inciso con tagli lineari nel settore.  Sebbene le risorse andrebbero sicuramente implementate in questa fase storica anche quelle già stanziate giacciono inutilizzate per difficoltà operative. Pertanto la priorità dovrebbe essere come renderle disponibili in tempi brevi. Attualmente vi sono a disposizione 14 milioni risparmiati annualmente dalla chiusura dei residence della delibera 368/2013, 40 milioni, prima trance di 194, della delibera regionale 110/2016 per l’emergenza abitativa, 12 milioni della delibera comunale 150/2014 per l’emergenza abitativa e 47 milioni per operazioni di ristrutturazione dei complessi residenziali pubblici della legge 80/2014. Mai come in questa fase storica rispetto agli ultimi venti anni vi sono stati così tanti fondi per affrontare il problema, 264 milioni di euro.
Se consideriamo questi tre fattori: la non critica domanda di alloggi di prima necessità (non più di 5 mila), la vastità e le potenzialità di trasformazione del patrimonio pubblico, la disponibilità di fondi per le trasformazioni non possiamo non rilevare come l’emergenza abitativa romana sia determinata più da una inerzia amministrativa che dalla drammaticità della situazione.
A Roma pertanto non esiste alcuna emergenza abitativa, i dati sulle famiglie in condizioni disagiate sono da anni consolidati e strutturali. Quella che invece esiste è una emergenza gestionale, una emergenza di pianificazione pluriennale e soprattutto una emergenza legata alla carenza di una visione politica.
[1] Italo Insolera, Roma Moderna, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 2011, p.282.
[2] AA. VV., Abitare la periferia. L’esperienza delle 167 a Roma, Roma, Camera di commercio Industria Artigianato e Agricoltura di Roma, 2007 p.101.
[3] Enrico Puccini, Verso una politica della casa: dall’emergenza romana ad un nuovo modello nazionale, Ediesse edizioni, Roma, 2016, p.69.
[4] Cresme, Roma, La Domanda di Abitazioni. Dimensioni, qualità e scenari, Roma, 2012, p.59.
[5] Censimento Ater Roma 2016.
[6] Dati dal censimento Istat 2011.
[7] Interpolazione dati delle sanatorie sugli alloggi e.r.p.

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